Se è vero che la storia del nostro pianeta si distende su una linea ininterrotta che non conosce soluzione di continuità dal Big Bang ad oggi, è pur vero che gli uomini, al fine di orientarsi nell’infinità dei tempi, fin dall’antichità, hanno spezzato artificiosamente questa linea, individuandone, sulla base dei ritmi astronomici della terra, una scansione in giorni, mesi, anni, atta a
facilitare il computo dei cicli relativamente brevi della vita umana.
Così nell’immaginario dei singoli individui o delle collettività, Ia fine di un anno solare si è sempre configurata come la chiusura di un circoscritto fluire del tempo ed ad essa si è necessariamente legata l’esigenza di un bilancio retrospettivo.
Il 2017 si sta concludendo ed anch’io, come uomo, ma questo qui non interessa, e come presidente della nostra Sezione, non posso sottrarmi all’umana consuetudine del rendiconto consuntivo. Questa sintesi del pregresso costituisce infatti, per le aziende, gli enti ed altre collettività, e senz’altro anche per singoli, un significativo quadro di riferimento per progettare il futuro.
E quale chiave di lettura più oggettiva del numero?
Ed è proprio sulla base dei numeri che, ad un primo esame, ho cercato di valutare i risultati raggiunti: numero degli iscritti, numero dei nuovi brevettati, numero degli eventi sportivi a cui abbiamo partecipato, numero delle manifestazioni che abbiamo organizzato, ed altro.
I numeri, seppure con qualche chiaroscuro, possono essere considerati incoraggianti e lasciano intravedere come la qualità e la quantità dei frutti raccolti possa ancora migliorare.
Ma poi, al termine di questa valutazione aritmetica, ho percepito un senso d’insoddisfazione, come se qualcosa di essenziale non fosse stato colto e a seguito di una più profonda riflessione, ho capito che a questa stima sfuggivano risultati non valutabili in termini numerici. Risultati più impalpabili, apparentemente nebulosi, che afferiscono al sentire più profondo del cuore e della mente, ma non per questo meno incisivi, meno utili in vista delle prospettive future o come rilevatori di programmi da implementare.
Per districare questa matassa di sensazioni, di intuizioni non ancora portate alla luce, ho cercato di comprendere cosa la nostra Associazione potesse rappresentare nel contesto dell’attuale società. Così ho ripercorso mentalmente la mia storia di soldato e poi ancora indietro quella, più generale, della leva militare obbligatoria dalla formazione dell’unità d’Italia, attraverso gli oltre trent’anni di vita repubblicana, fino agli anni 90, quando la leva venne, di fatto, abolita.
Da molti cittadini del nuovo regno essa fu sentita come un peso ed è innegabile che per molti versi lo fu. Ma, fin d’allora, essa svolse un ruolo fondamentale come catalizzatore dell’unificazione dei popoli in un’Italia, in cui, come ebbe a dire Cavour, era ancora necessario fare gli italiani. Fu un potente omogeneizzatore della lingua italiana e consentì d’intendersi a genti che da secoli avevano percorso strade separate e parlavano dialetti diversi.
Con la nascita della Repubblica questo ruolo non è venuto meno, perché nuovi orizzonti si stavano configurando: il fatto che giovani provenienti da strati sociali diversi si ritrovassero a vivere in una stessa camerata, condividessero le stesse esperienze, fossero educati al sacrificio e agli stessi valori fu uno strumento formativo di grande pregnanza sociale.
Quei giovani riuniti senza marchio di fabbrica, nella stessa caserma, formati al rispetto della Patria e delle istituzioni, al sentimento di responsabilità nei confronti del proprio dovere, allo spirito di uguaglianza, cosa nuova in una Italia che non aveva ancora spazzato via i privilegi di casta, furono veicolo di trasmissione, nei loro territori, di una mentalità collettiva che non si era ancora formata. Si realizzò così un’osmosi tra valori del mondo militare, come dire valori della nazione repubblicana e della democrazia, e le realtà territoriali regionali, un’osmosi continua, atta a fare di quei territori diversi la Nazione Italia.
Questa mirabile fucina di giovani formati ai sani principi dell’impegno e della responsabilità, si è chiusa con la fine della leva. Quel periodo costruttivo che per i giovani maschi rappresentava, quasi rito di iniziazione delle società primitive, una palestra di allenamento alla vita, è venuto meno e con esso il legame tra realtà militare e popolazione. Ed i giovani catapultati, ex abrupto, dalla famiglia nel mondo del lavoro, hanno dovuto rinunciare a quel patrimonio educativo, a quell’avviamento all’essere adulti, che il servizio di leva offriva loro. Chi può dire che al senso di sbandamento che oggi si diffonde tra i giovani non abbia contribuito anche la mancanza di questo solido zoccolo di formazione?
In particolare per quanto riguarda la nostra specialità “l’interruzione“ della leva ha spezzato quel cordone ombelicale che a Tarquinia, poi Viterbo e poi ancora Pisa, aveva collegato il mondo del paracadutismo militare al tessuto sociale civile italiano. I paracadutisti, entrati subito nella leggenda all’indomani della loro costituzione, con il passare degli anni avevano rapidamente contribuito a creare, nell’opinione collettiva, la figura del soldato speciale, plasmato da una disciplina ferrea ma peculiare e in grado di affrontare e superare sfide ad altri precluse. Così il flusso e reflusso, dalle nostre caserme nelle loro case, nei loro quartieri, tra i loro amici, di tanti ragazzi aitanti, scanzonati, guasconi ha contribuito ad alimentare, nell’immaginazione di generazioni e generazioni di giovani, il sogno di un paracadutismo militare come aspirazione ambiziosa, forse non alla portata di tutti, ma comunque da tentare.
Si potrebbe obbiettare che tutto ciò appartenga oramai al passato e che, sebbene possa indurre la considerazione che si tratti di uno splendido patrimonio gettato alle ortiche, altro non resti che prenderne atto, arrendersi all’idea che le idealità del Paracadutismo, forgiate per decenni nelle palestre del CMP, SMIPAR e poi CAPAR e sviluppate ulteriormente nei reparti della nostra Brigata, cessino di aleggiare nelle scuole, nelle fabbriche, nelle case, nell’immaginario comune del popolo italiano. E ancora: niente possiamo fare noi paracadutisti dell’ANPdI, a fronte della soppressione della leva, per arginare questa fisiologica tendenza distruttiva del sentito spirito di corpo che per decenni ha alimentato le nostre anime.
L’ANPdI voluta dai reduci del secondo conflitto mondiale, ha rappresentato il punto di incontro di quest’ultimi con quei giovani che, avendo terminato il servizio militare, intesero proseguire, quasi in una caserma surrogata, la loro storia di paracadutisti militari. A questi, poi, negli anni si sono progressivamente aggiunti altri giovani che hanno conosciuto l’esperienza del lancio con paracadute frequentando i corsi tenuti dalla nostra associazione. Per molti questa esperienza ha rappresentato la premessa di un servizio militare nelle aviotruppe, dal quale poi tornare come “socio ordinario” nelle file associative.
Nessuno può negare che oggi la nostra Associazione risulti mutilata dal mancato ritorno dei paracadutisti di leva. Deve però formarsi e prendere vigore la coscienza che l’ANPdI possa proporsi quale strumento per ricreare, almeno in una certa misura, ciò che è stato distrutto. Non si torna indietro tout court, ma è forse possibile recuperare in forme diverse quello che “là dove si puote” si è, surrettiziamente, cercato di disperdere.
Questo l’impegno al quale siamo chiamati e al quale siamo pronti a far fronte grazie alla tradizione coltivata, negli anni, all’interno della nostra palestra.
I giovani che frequentano i nostri corsi fruiscono di un’analoga formazione che un tempo veniva impartita nella Scuola e poi nelle caserme della Brigata: vivono a fianco dei lori istruttori per settimane, ne assimilano ideali e valori, si allenano ad assumere responsabilità e a valutare la realtà con cognizione di causa, senza superficialità o leggerezza, per la gravità delle conseguenze che leggerezza e superficialità possono comportare. Imparano la storia della nostra specialità, le nostre canzoni, sperimentano il senso dell’appartenenza e della condivisione. Patrimonio che possiamo essere certi, portano nelle loro vite quotidiane, nelle scuole, nelle fabbriche, nei loro posti di lavoro. Ma soprattutto, quelli che lo vogliono sono già preparati, nel fisico e nello spirito, per entrare nella nostra Brigata.
E così quel nostro albero che per lunghi anni ha affondato le sue radici, radici rappresentate da quegli uomini che noi tutti riconosciamo come nostri gloriosi padri, nel terreno di un’Italia che voleva crescere rigogliosa, quell’albero, al quale è stata sottratta la sua linfa vitale e rischiava di disseccarsi, potrà attraverso le palestre dell’ANPdI, ritrovare il suo prezioso alimento, mettere nuove foglie e dare altri frutti.
Volesse il cielo che quella chioma diventasse così grande da poter dare riparo a tutti nella tempesta che sembra travolgere il nostro quotidiano. Sia questa la nostra sfida.
BUON ANNO