Nell’immoto silenzio del cimitero un’alba di perla ha precocemente fugato le ombre della notte. È l’alba di un giorno di tarda primavera che già volge all’estate. Drappi di nubi biancastre striano l’orizzonte minacciando un’imminente poggia. Il cielo che si fa chiaro, balugina tra le cime lievemente scosse dei cipressi, un fascio di luce sfuggito alla verde barriera sfuma una macchia informe sul frontone di un’antica tomba.
Anche nella foresta dei morti gli uccelli intrecciano i loro dialoghi mattutini, si scambiano messaggi sull’arrivo del nuovo giorno, incuranti della sacralità del luogo. Un gatto solitario gironzola tra le vecchie pietre, indugia negli anfratti, insegue una sventurata lucertola appena richiamata dai primi raggi di un incerto sole.
Riposano i corpi nei loro sepolcri, testimoni muti di tante storie diverse, lontane e vicine.
Noi, giovani paracadutisti, sepolti sotto questa stele, perdemmo le nostre acerbe vite sul lido laziale, in uno slancio di fede e di amore vincemmo la paura e nell’ora suprema rispondemmo al patrio richiamo fino all’estremo sacrificio. Nessun rimpianto per la giovinezza negata, per gli amori mancati perché, lo sappiamo, “Muoiono giovani coloro che gli dei amano”.
Quiete, pace, calma assoluta regnano in questo luogo, non voci nell’aria, non calpestio di passi sull’acciottolato dei viali. Sembra che gli uomini si siano dimenticati dei loro morti in questa domenica estiva.
Ma poi il tramestio di mani operose, che si affannano intorno alla nostra pietra, rompe il silenzio irreale di quest’ora. Amorevolmente liberano la terra che ci copre dalla vegetazione intrusa, depongono fiori, allestiscono un sacro altare come per un prossimo rito.
Si ode l’incedere lontano di un corteo muto, lo spazio si riempie a poco a poco di colori, di suoni, di voci: è l’anniversario della nostra ultima battaglia! Gli amici non ci hanno dimenticato, vengono da noi, vengono per noi.
Il corteo si fa più vicino, si serra attorno alla stele: i cappelli piumati dei bersaglieri, gli austeri alamari dei granatieri si mescolano all’amaranto dei baschi dei nostri “allievi”, ai colori della terra che tingono le tute mimetiche, agli azzurri e all’oro dei labari, ai tricolori di un Italia che festeggia il suo centocinquantesimo anniversario, fiera della sua storia al cui divenire noi abbiamo offerto il contribuito del nostro stesso sangue.
La gente è allegra, felice di incontrarsi, i nostri camerati di allora si riconoscono, si salutano, ricordano insieme e raccontano alle nuove generazioni i giorni della battaglia. È una festa, non c’è tristezza negli occhi dei presenti, solo si legge sui volti di tutti il piacere, l’orgoglio di trovarsi riuniti in tanti a rivivere quelle stesse emozioni, condividere gli stessi ideali.
E sopra questo consesso di persone che gioiscono, si scambiano abbracci e memorie, rivivono comuni passioni fuggono, come per magia, le nubi biancastre della prima alba, il cielo diviene man mano più azzurro, quasi immenso labaro che voglia farsi aerea cortina per la santa celebrazione. L’aria si fa ferma senza un alito di vento, quasi volesse ascoltare parole non dette. C’è un calore di sentimenti che passa di corpo in corpo, un’intensa commozione che congiunge gli animi e giunge fino a noi.
Nel silenzio raccolto di tutti i presenti una tromba intona il silenzio fuori ordinanza: siamo nella nostra caserma alla vigilia del congedo! Quale emozione! Domani torneremo alle nostre case? Dalle nostre madri? Riassaporeremo il calore dell’abbraccio amoroso?
No, non noi, quel silenzio che prelude al ritorno non suonò per noi, noi conoscemmo solo quello, ben più profondo, del campo di battaglia dopo la sconfitta, i nostri corpi esangui, straziati nella polvere trafitta dall’esplosione delle granate e dei colpi di cannone, il senso della fine, dell’inanità dell’estrema difesa, il doloroso presentimento della disfatta totale.
Ora una voce sovrasta gli astanti, tutti tacciono, ascoltano le parole che fendono il silenzio e lo rendono denso e tangibile. Quelle parole raccontano di noi, celebrano il nostro martirio.
“Roma è caduta, ma i corpi degli eroi rimasti sul campo sono e siano per sempre il simbolo del riscatto delle virtù italiche, la prova più certa che l’Onore d’Italia è stato difeso oltre il limite di ogni possibilità umana”.
Non fu vano dunque il nostro sacrificio!
Quella tromba oggi ha suonato…ha suonato per noi, sì proprio per noi! Un richiamo alla vita che si rinnova grazie al ricordo di chi riconosce il valore della nostra volontaria rinuncia.
Sì noi ancora viviamo nella mente e nei cuori di quelli che oggi hanno voluto essere qui. Tanti uomini, tante donne che non possono e non sanno dimenticare.
Sono venuti per testimoniare che la nostra morte non è stata inutile, che il seme gettato continua a dare i suoi frutti. Siamo un faro per le generazioni di oggi e di domani.
Il corteo se ne va in muto raccoglimento, così come era venuto. Solo un lieve scalpiccio di lenti passi, poi più niente, ritorna il silenzio di sempre, spazio infinito per la meditazione eterna.
Che succede ora? D’improvviso si addensano le nubi, scompare il labaro azzurro del cielo, cadono le prime gocce di pioggia, poi un precipitare denso intona un canto mutevole sulle foglie degli alberi, sulla terra, sui tetti delle cappelle, sulle pietre levigate delle tombe, sui viali compatti di ciottoli e i sentieri scomposti di ghiaia, riempie il vuoto dell’aria.
Grazie, Buon Dio, per la provvidenzialità del tempo! Questa musica è dolce ora che la festa è finita.
I Ragazzi del Verano