FUNE DI VINCOLO

SI PRECISA CHE QUANTO ESPOSTO NEGLI ARTICOLI NON RAPPRESENTA, E NON PUÒ RAPPRESENTARE, NÈ LE POSIZIONI DELLA SEZIONE DI ROMA NÈ TANTOMENO QUELLE DELL'ASSOCIAZIONE, MA COSTITUISCONO MERAMENTE OPINIONI RIFERIBILI AL SOLO AUTORE.

El Alamein

Da più di due ore i “cammellieri” spingono la mandria dei fuoristrada su un accidentato percorso attraverso il deserto egiziano. Per non affogare nella nube di sabbia sollevata dai veicoli che ci precedono, i finestrini sono chiusi e non c’è condizionamento d’aria.

La luce abbagliante, la temperatura elevata, l’uniformità e l’asprezza del paesaggio, i ripetuti sobbalzi e i discontinui ondeggiamenti non incoraggiano la sopportazione e spengono l’entusiasmo della partenza: comincio a sentirmi esausto, stanco di un viaggio che sembra non avere fine.

D’un tratto qualcosa di diverso turba l’invariabilità dell’orizzonte, in lontananza una sagoma delinea contro l’azzurro del cielo il profilo sinuoso di un cammello. La novità mi scuote dallo stato di torpore misto a risentita rassegnazione che si è impadronito di me e metto a fuoco “l’immagine amica”: troppo  distante troppo imponente per essere un cammello, eppure gli somiglia. Stentoreo il cammelliere proferisce le sue prime parole: El Himeimat.

Le vetture continuano la loro corsa, sembrano andare alla cieca lungo un tragitto apparentemente inesistente ma la nostra strada si materializza metro dopo metro e implacabile avanza verso la meta.

Le gobbe del cammello si avvicinano poi d’improvviso scompaiono, nascoste da un costone sotto il quale i SUV si fermano e progressivamente si allineano come bestie ad abbeverarsi lungo una via d’acqua. Ma di acqua c’è solo quella delle nostre bottigliette alle quali attingiamo avide sorsate. Saliamo il costone sino a raggiungerne la sommità. La prepotente luce del sole prolunga i tempi di adattamento e ritarda la messa a fuoco dello spazio circostante: un’ampia piattaforma di sassi e sabbia. Lo sguardo si sposta curioso oltre e poi ancora più oltre alla ricerca di un orizzonte che non c’è: l’immenso, silente oceano di sabbia, l’incerto, sfumato confine tra cielo e terra, la totale assenza di ostacoli che lasciano spaziare la vista richiamano con prepotenza il senso dell’infinito e della morte.  Per sottrarmi a questa penosa suggestione, mi sforzo di ritornare al presente e al luogo in cui ci troviamo.  Mi soccorre una voce recitante: “… questa è Nabq Rala e qui ha combattuto ciò che restava del V battaglione ...”

Lo sguardo, ormai adattato, inizia ad esplorare lo spazio vicino ove riconosce bassi camminamenti, buche, postazioni per mitragliatrici. I ragazzi sono là ai loro posti, magri, laceri, sfiniti, mi guardano con grandi occhi ardenti di stanchezza e di passione, scavati in orbite rese profonde per la sete che li tormenta da giorni.

Mi osservano muti con lo stesso sguardo inflessibile ma affettuoso con il quale il padre rimprovera il figlio per non aver risposto ad una condivisa aspettativa. Vorrei chiedere loro il perché di quelle occhiate severe che suscitano in me il senso della colpa, ma d’improvviso tutti insieme si voltano, richiamati da un superiore dovere e puntano le loro armi verso il deserto, pronti rispondono al fuoco dei francesi della Legione che attaccano lungo il crinale di sinistra, appoggiati dal fuoco dei cannoni e dalle mitraglie dei carri armati spuntati dalle sabbie.  Attorno è l’inferno: esplodono colpi di mortaio e di artiglieria, l’aria è piena di grida di comando, richieste concitate di munizioni, urla disperate di dolore. Morti e feriti vengono fatti scivolare nelle retrovie come pupazzi inanimati, nel caos della battaglia nessuno sembra più accorgersi di me.  Ma non è così: ritrovo quello sguardo di affettuoso rimprovero negli occhi senza luce di un ragazzo trascinato a morire lontano dalla mischia.  “…Adesso avete mezz’ora per visitare le postazioni…”  la voce recitante mi riporta ancora una volta alla realtà. La bocca è riarsa per la sete ma molto più penoso e difficile da sopportare è il profondo senso di colpa lasciato in me da quegli sguardi severi.

Non bevo, è più pressante in questo momento il bisogno di capire, mi interrogo, ma non capisco ancora. Comincio a camminare lungo le postazioni e quasi mi meraviglio di vederle vuote, inanimate, silenziose. Temo per un istante che il terribile incubo stia per riprendere, allorché, al termine di un camminamento, nella piazzola di una mitragliatrice, ritrovo uno di loro, lo riconosco: il  volto non è più giovane ma il portamento è fiero, indomito, mi guarda con grandi occhi profondi e stanchi, bagnati di lacrime, quel pianto mi appare quasi  irrispettoso  su quel volto fermo, ma il vecchio leone non lo nasconde, ci si abbandona con tutto il suo essere. Con dolore ricorda. Poi prende a parlare con voce bassa e armoniosa, carica di sentimento. Non riesco a sentire il senso del suo dire, ma la tristezza e l’affetto che leggo dei suoi occhi sono gli stessi che avevo scorto negli sguardi di quei ragazzi prima della battaglia e nel volto esangue del camerata morente.

Allora ho capito e i miei occhi si sono appannati dapprima con un velo di pianto e poi grosse lacrime di vergogna e dolore, hanno rigato le mie guance. Vergogna per l’intolleranza provata nei confronti dei modesti disagi del tragitto, per l’insofferenza della calura, della sete, della polvere; vergogna per superficialità borghese con la quale, io viziato uomo del nostro tempo, avevo intrapreso quella spedizione, verso il sacro luogo ove i “nostri padri” avevano conosciuto ogni sorta di privazioni, sofferenze e spesso la morte.  Dolore per avere perduto un’irripetibile occasione: testimoniare a quei ragazzi il mio affetto ed esprimere gratitudine per avermi additato, con il loro esempio, valori e comportamenti dei quali ho creduto di fare regole di vita.

Fratelli miei, vi chiedo perdono e vi prego di offrirmi ancora un’opportunità, così come farebbe un padre con un figlio che ha commesso uno sbaglio, per rendervi gli onori dovuti. Ritornerò ancora qui tra voi per ricordare il vostro sacrificio, per testimoniarvi che il vostro seme non è andato perduto. Tornerò, tornerò e tornerò ancora sino a quando Dio, se me ne riterrà degno, vorrà offrirmi la possibilità di sorridere assieme a voi, da quell’angolo di cielo, ai nuovi paracadutisti ai quali avremo insegnato le vostre vie, additati i vostri orizzonti.

A.N.P.d'I. sez. di Roma

Via Sforza, 5
00184 - Roma - Italia
Tel.: (+39) 06 47.45.811
e-mail: roma@assopar.it

INFORMATIVA SULLA PRIVACY

COOKIE

Orario sezione

Martedì
dalle ore 17.00
alle ore 20.00

Eventi/News

Copyright © 2024 | Associazione Nazionale Paracadutisti d'Italia - Sez. di Roma

Search

I cookie ci permettono di offrire i nostri servizi. Utilizzando i nostri servizi, accetti il nostro uso dei cookie MAGGIORI INFO